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Finzione e verità in Spaesamento di Giorgio Vasta

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di Marco Mongelli

Spaesamento, di Giorgio Vasta, uscito nel 2010 per la collana Contromano di Laterza, è un testo importante e significativo perché si colloca all’incrocio di tante pratiche testuali e, attraverso un procedimento lato sensu autofinzionale, funzionalizza la presenza di ciascuna di esse. Spaesamento è, nella sua brevità, un testo talmente frontale nella descrizione saggistica dell’esperienza vissuta (i tre giorni a Palermo) che l’elemento finzionale è a prima vista inesistente. Tuttavia, il libro non si esaurisce completamente dentro il “racconto autobiografico”, il “reportage giornalistico” o il “microsaggio”, ma supera tutte queste categorie, attraverso uno stile e un linguaggio iper-letterari e una costruzione narrativa “scenica”, teatrale. Il primo dispositivo del testo a me sembra proprio quello autofinzionale, usato in modo atipico, ma non meno efficace. Inoltre, come altre autofiction più schiette (Troppi paradisi e Italia De Profundis), è un eccellente discorso sul contemporaneo e sulle sue deformazioni, quotidiane e collettive.
Spaesamento è il racconto di tre giorni estivi a Palermo. Lo scrittore torna nella sua città natale dopo quindici anni e, senza prendere nessun contatto con gente conosciuta, ripercorre i luoghi di Palermo scoprendone via via le trasformazioni e l’omologazione rispetto al resto dell’Italia. Il capoluogo siciliano diventa così lo specchio per leggere la situazione sociale e antropologica dell’Italia intera e insieme la psicologia degli italiani, immersi in un’apatia dalla quale non vogliono destarsi. L’occasione di questa esperienza euristica è data dalla visione di un documentario sul carotaggio delle rocce. Come i geologi prelevano pezzi di terra perforando la superficie terrestre, così lo scrittore si propone di indagare la realtà italiana campionando pezzi delle sue manifestazioni: i luoghi (strade, spiagge, bar) e le persone (bagnanti, passanti, negozianti, avventori dei bar). La pratica è quindi scopertamente allegorica, perché configura il proprio sguardo come una trivella che, attraversando una parte, attraversa il tutto. Palermo è l’Italia, dunque, e l’Italia è Palermo. Allo stesso tempo, cosa più interessante, Giorgio Vasta è l’italiano, e ogni italiano è Giorgio Vasta: come tutti, verrebbe da dire.
Il racconto-reportage si divide in tre capitoli, i tre giorni della permanenza palermitana. In ogni giornata lo scrittore, campionando materiale nuovo, accresce i dati della sua ricerca e complica la sua riflessione socio-antropologica. Essa, esposta nelle forme argomentative del saggio, procede per assiomi e asserzioni rigide, che però sono sempre messe in discussione. L’eccessiva semplificazione delle dinamiche profonde che muovono il paese porta lo scrittore a correggere man mano il tiro, con un procedimento teso a intrecciare le interpretazioni dei fenomeni superficiali. Per questi motivi l’accumulo di esperienze tende ad aumentare lo spaesamento iniziale, non a normalizzarlo. La sensazione di estraneità immediata, quella derivante dal non riconoscere il paese in cui si è cresciuti, è acuita dai numerosi tentativi frustrati di comprensione. In questo il procedimento poetico sotteso al testo è tipicamente autofinzionale. Mettendosi in scena, lo scrittore non ricava dalla propria esperienza, reale e testuale, una verità, ma tanti epifenomeni di un humus sotterraneo, tanti campioni di un carotaggio tanto indispensabile quanto provvisorio nei suoi risultati.

Il primo scarto rispetto ai testi canonicamente autofinzionali italiani, come quelli di Siti e Genna, è rappresentato dall’uso della fiction. Dov’è la fiction in quello che sembra un classico reportage (seppur “intimo e politico”) il resoconto di un viaggio, con i suoi incontri e le sue esperienze? O meglio, quando si può parlare di fiction in questo testo?
Il protagonista, autore e narratore, definisce il suo stato mentale, durante un “carotaggio” particolarmente intenso, come quello di un “cartoon psicotico” (p. 37). A ben guardare, dunque, la finzione non si modalizza nel livello testuale più esterno, ma in quello più interno, nel momento, cioè, in cui il narratore stesso visualizza e riferisce la sua esperienza.
Se in un’autofiction tradizionale si devono inserire degli effets de vie per rendere credibile l’apparato referenziale del testo, in Spaesamento assistiamo, sottotraccia, al meccanismo opposto. Il testo, stimolando una ricezione ibrida (anche a causa della collana e del paratesto, che è muto) finge ogniqualvolta forza i confini del diario. I personaggi e gli eventi, per la loro carica allegorica e metonimica, sembrano, infatti, romanzati, o comunque modificati dall’autore in funzione del suo carotaggio. Anche quando mimano iper-realisticamente il discorso “da bar” sono in realtà continuamente sottoposti a un’operazione finzionale. A questo proposito sono emblematiche le figure dei due ragazzini sulla spiaggia che, riproducendo un tipico atteggiamento estorsivo, costringono il protagonista a un confronto spiazzante. Ancora più piccoli dei loro omologhi letterari de Il tempo materiale, ne rappresentano l’ideale precedente anagrafico. Più irreali dei brigatisti del romanzo, questi sedicenti bambini reali di Spaesamento sono svuotati di qualsiasi umanità, già dentro un fatalismo ormai sprovincializzato e pienamente italiano. Il meccanismo di finzionalizzazione opera come in tutte le opere autofinzionali: eccede il reale mediante un’iper-realtà letteraria. Questa realtà più vera del vero, però, non è direttamente mediatizzata, come in Troppi Paradisi e in Italia de profundis, ma è figlia della spoliazione di tutto il resto, della riconversione di ogni spazio alla compravendita e del trionfo dell’attuale su ogni forma temporale. Nella maggior parte dei casi non è possibile riconoscere nel testo i momenti in cui la finzione si palesa per contorcere i fatti reali. La scritta “BERLUSCONI” sulla spiaggia è un’azione troppo auto-evidente, quasi didascalica, per essere presa sul serio, ma niente nel testo giustifica una sospensione di credulità da parte del lettore. In pochi, e per questo significativi loci testuali, invece, il fictional altera il factual presentandosi in maniera eclatante. La finzione opera, infatti, sulle persone in cui si imbatte il protagonista, appellandole con nomi celebri della fiction artistica (Brandon Lee da Il Corvo, Tom Cruise da Cocktail, Alex e i suoi amici dal “Korova Milk Bar” di Arancia Meccanica, Captain Harlock dall’omonimo manga, Stefi dal “Corriere dei Piccoli”, persino Hal 9000 da 2001: Odissea nello spazio”, etc.) o con appellativi più o meno bizzarri (Topinambur, donna-cosmetica, donna-lago, il bruno e il biondo).  Palesemente letteraria è anche la chiusa del terzo capitolo quando, in una sorta di delirio onirico-psicotico, tutti i personaggi incontrati in quei due giorni si presentano dal protagonista per tirare le somme di quella ricognizione conoscitiva. Gli oggetti carotati divengono soggetti dell’interpretazione e portano il protagonista, sempre più spaesato, lontano da tentazioni riduzionistiche. Come dire che solo la finzione, solo l’invenzione, dà ragione di un’esperienza estetica. Prima fra tutte le marche di finzionalità, però, è la lingua: profondamente materica e sensoriale ha certamente poco a che vedere con quella giornalistica o diaristica. I connotati letterari di un testo si misurano anche dalla sua funzionalità linguistica, da quanto cioè le parole riescono a informare il lettore sul suo senso. L’operazione di Vasta è dunque, in questo, totalmente letteraria: rinunciando a una struttura romanzesca solida e coesa, si affida, per parlare del mondo, solo alle percezioni empiriche, e dunque alle parole che le trasferiscono sulla pagina.
L’isotopia più forte in tutto il testo è quella che si riferisce alla categoria del “presente”: il tempo e il corpo presente sono unici, esclusivi e paralizzanti.
Il tempo presente è come il tempo percepito dopo un grande sforzo fisico, un tempo in cui tutto è presente nello stesso momento, e senza nessun passato. È la situazione in cui, secondo Vasta, viviamo oggi in Italia, nel trionfo dell’indistinguibile e dell’attuale. Nemmeno l’io narrante può dissociarsi completamente dalla realtà che sta analizzando perché ne è espressione e vittima suo malgrado. Tutto l’immaginario è continuamente plasmato, persino quello erotico. Il narratore alla ricerca di senso dovrà subire su di sé gli effetti perturbanti della donna-cosmetica, simbolo del femminile dominante, esattamente come da ragazzino subiva, nolente, il fascino kitsch e popolare di Edwige Fenech, nonostante bramasse riferimenti femminili ben più alti. La figura coerente dell’esploratore è dunque, costantemente contraddetta e messa alla prova.
Il cambiamento subito dalla città è l’esperienza costante di cui è soggetto il protagonista-narratore-scrittore. Laddove c’era un bar ora c’è un negozio di abbigliamento: la conversione degli spazi è conversione delle forme del discorso, le parole si fanno minime, standardizzate e funzionali esclusivamente alla compravendita di beni. Accanto a una trasformazione dell’organizzazione discorsiva c’è quella, ancora più rilevante, degli spazi: la progressiva omologazione dell’arredamento, uguale da Milano a Palermo, perché uguali sono gli usi di quei neo-spazi (come l’happy hour) fa prevalere l’attuale, che schiaccia e domina tutto il resto. Questo fenomeno, pienamente occidentale, è possibile grazie alla “capacità di introiettare il lavoro di cosmesi in atto negli spazi urbani di tutta Italia” (p. 28), che rende impossibile sfuggire al “presente infinito”. La drammaticità sta proprio nell’incontrovertibilità del processo di mutamento, che sembra direzionato e irreversibile, e non dà chance ad alcuna metamorfosi diversa, nemmeno compensativa. Vasta avverte tutto questo ed è sconvolto soprattutto dall’apatia, dalla passiva adesione allo status quo, che, paradossalmente, si manifesta in reazioni confuse ed esagerate. Il canto del cigno non è altro che la tempesta neurovegetativa di un malato terminale che sente prossima la fine e moltiplica le sue funzioni vitali. Così il paese agita le braccia mentre affonda, non per salvarsi, ma solo per continuare a sguazzare ancora un po’.
Lo scrittore-protagonista Vasta, pienamente autofinzionale, torna spesso sull’indistinguibilità tra sé e gli altri. Quello che bisogna contrastare è su una soglia, su un limbo invalicabile, perché riporta sempre dalla stessa parte, dove il legale è illegale e il morale immorale. Chi si propone di intraprendere un’escavazione simile, dunque, deve servirsi del proprio malessere per attraversare il fantasma di un corpo come quello italiano, proteiforme e inafferrabile.
Il discorso di Vasta, nonostante l’univocità dello sguardo, è sempre collettivo, più che generazionale o individualista e quasi tutte le proposte interpretative riguardano il corpo socio-antropologico italiano nella sua totalità attuale e nel suo essere imprigionato in un eterno presente. Il progressivo sedimentarsi di esperienze, incontri e (pochi) dialoghi, stimola un discorso sulle forme dell’umano. In un quadro di assoluto presente l’umano è spaesato e allo stesso tempo colpevole, e il male si configura senza cattiveria, leggero e naturale, involontario e per questo ancor più terribile.
L’italiano ha imparato a non reagire più ad alcuno stimolo esterno, come la lumaca che, stuzzicata dal protagonista, smette di nascondersi una volta che ha verificato l’innocuità del pericolo umano. Il prodotto umano di questa irreversibile mutazione è, secondo Vasta, un nuovo qualunquismo, ormai sdoganato. Non più vile e subdolo, ma fiero e orgoglioso della propria visione del mondo. E per comprenderlo c’è bisogno di considerare Berlusconi non come il creatore di cui tutto è emanazione, ma come colui che rivela le connessioni, chiarifica le percezioni, rende possibile la metonimia fondamentale di tutto il libro: “Palermo è l’Italia è Palermo è l’Italia”. Questo movimento non dittologico ma circolare, non ha vie di fuga, si enuncia e si esaurisce in quell’uguaglianza infinita. E l’intelligenza, la capacità di comprendere, alla quale si aggrappa disperato il protagonista, non serve a niente, non provoca alcuna rivalsa della coscienza, serve solo ad autoalimentare la frustrazione.
Il racconto finisce con la fine del viaggio a Palermo: rimettendo insieme i pezzi di realtà prelevata, il protagonista sente il valore euristico universale dell’esperienza siciliana ricadere pesantemente sulle proprie spalle. Per tornare a maneggiare l’umano, a sentirlo vivere, ha necessità di rimontare le sue emozioni contrastanti. Quello che deve fare è cercare di generare un’intelligenza utile, di fabbricarsi, cioè, “un sentimento per l’uso dell’umano” (p. 118).
Proprio come in Troppi Paradisi e in Italia de profundis, il personaggio principale di Spaesamento è il personaggio Italia, “l’infinito ventre molle”, in cui i diversi io-narranti si aggirano disperati e storditi da un’euforia ingiustificata. Il paese che ha messo al bando il suo passato, che nel suo eterno presente si è fatto depredare della sua umanità, è il soggetto che il romanzo di oggi deve raccontare, anche servendosi di una voce che mente e che finge.



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