di Marco Mongelli
Christian Raimo torna al racconto breve, genere tanto affascinante quanto negletto dalla nostra narrativa contemporanea e, a due anni dall’esordio nel romanzo (Il peso della grazia, Einaudi, 2012), nonché a dieci dall’ultima raccolta di racconti (Dov’eri tu quando le stelle del mattino gioivano in coro?, minimum fax, 2004), lo scrittore romano pubblica Le persone, soltanto le persone (minimum fax, 2014). Gli otto racconti, di varia lunghezza e diversa impostazione, sono preceduti da un breve testo in versi che suggerisce che quel “soltanto” del titolo sta per “solamente”, ovvero “esclusivamente”, e che di persone e non di «esseri immaginari» è popolato il mondo.
La raccolta presenta diversi motivi di interesse e, seppur con alterno successo, mostra in modo chiaro la poetica di Raimo, capace di modulare il disagio esistenziale contemporaneo su toni comici e lirici insieme attraverso la costruzione di situazioni estreme e inverosimili e l’uso di una scrittura sempre profondamente auto-riflessiva. Se questi sono gli assi su cui si regge l’architettura di ogni racconto, le differenze andranno ricercate nell’intonazione specifica della voce narrante – sempre alla prima persona tranne che nell’ultimo racconto, comunque focalizzato su un personaggio – che analizza i sentimenti mentre li racconta e in cui si avverte sempre la ricerca di una salvezza nell’inferno del quotidiano, più che di un senso quindi, di un “miracolo”.
Mantenendo un alto livello di referenzialità letteraria e un’atmosfera vagamente wallaciana, comunque meno avvertibile che nelle precedenti raccolte, Raimo individua in ogni racconto un nodo problematico della vita dei nostri giorni, variando le angolazioni ma cercando sempre una via di fuga, una possibilità di esistenza oltre la normale sopravvivenza.
L’omogeneità della raccolta è data innanzitutto dalla continuità del luogo-personaggio, Roma, e dalle diverse “disfunzionalità” (parola e cosa cara a Raimo e che torna spesso nelle sue riflessioni, anche giornalistiche) che gli ormai trenta-quarantenni protagonisti, tutti maschi, si trovano a vivere. Disfunzionalità di tipo relazionale, con i genitori alla cui sicurezza materiale si finisce per cedere in caso di stasi, e soprattutto con un partner femminile che si tradisce senza particolari conflitti interiori ma solo con la percezione di una fatalità utile o dannosa per sé stessi. Infine, i vari protagonisti dei racconti sembrano, perché sono fatti sembrare, tutti declinazioni dell’autore.
I tre racconti più significativi e meglio riusciti sono a mio avviso quelli centrali: “Ceto medio”, “Calvino contro Pasolini” e “Il gioco sbagliato”, dove a prevalere sono via via componenti diverse. Il primo di questi è quello più schiettamente “generazionale”, dove il ritratto fedele dei nostri tempi scaturisce dalla descrizione delle traversie di una giovane coppia che cerca di trasfigurare le proprie vite nella creazione di un prodotto televisivo diretto appunto a un tanto emblematico quanto vago “ceto medio”. La sovrapposizione di realtà e fiction, costruita dentro l’esegesi finzionale, è un tema cardinale di numerosa letteratura italiana contemporanea e le ripercussioni vissute dai protagonisti sono raccontate con limpida vivacità.
“Calvino contro Pasolini” (che nel titolo ironicamente rovescia un celebre saggio di Carla Benedetti intitolato Pasolini contro Calvino), divertentissimo e perfettamente calibrato, è una sorta di racconto di formazione retrospettivo e ucronico. In un’Italia in cui Calvino emigra a Cuba dopo l’esordio letterario e rimane misconosciuto in patria e in cui Pasolini è invece il padrone dell’editoria, un ragazzo con difficoltà a finire quello che inizia (caratteristica comune a tutti i protagonisti del libro) cerca di dare una svolta alla sua vita invitando il primo a proporre il suo romanzo fiume al secondo.
Il terzo fra questi racconti, “Il gioco sbagliato”, è quello a mio avviso migliore per qualità della costruzione narrativa e trasparenza delle emozioni. Paradossalmente è, fra tutti, quello dove l’autore osa meno dal punto di vista narrativo e stilistico, ed è anche, forse meno paradossalmente se si conosce l’attività su Facebook di Christian Raimo, un testo di purissima autofiction, seppur nell’inconsueta forma del racconto breve. Dell’autofinzione questo testo ha infatti le caratteristiche necessarie e sufficienti: da un lato la triplice identità nominale tra autore, narratore e protagonista – acclarata ulteriormente dagli effets de vie (ad esempio il lavoro editoriale, i nomi di colleghi e amici dello scrittore) – è esplicitata ripetutamente, dall’altro l’altrettanto evidente distorsione finzionale (come la precaria situazione finanziaria del protagonista, che non lavora come professore come ci aspetteremmo e che non ha mai letto Gli indifferenti) è virata in questo caso al comico-grottesco. Come sempre ciò che conta è lo stridere fra la verificabilità delle informazioni date nel racconto e la loro funzionalità specifica. In questo caso, la storia del manoscritto di un romanzo importante che l’editor Raimo si fa sfuggire è l’occasione per l’incontro con la misteriosa autrice e per il ricordo di fatti estremi e anni lontani. Il protagonista, come da manuale dell’autofiction italiana, si trova infatti sibillinamente accusato di uno stupro ai tempi del liceo. Ciononostante, la maggior leggerezza di struttura e stile di questo racconto fa sì che la consapevolezza dell’artificio narrativo sia abilmente dissimulata e non imponga la propria presenza ad un racconto che invece si snoda naturalmente. Gli stralci di e-mail e i lunghi dialoghi che compongono la narrazione, inoltre, non divergono, come in altri racconti, ma concorrono invece alla riuscita di un testo composito di cui però riconosciamo il senso e percepiamo il valore non appena una perfetta chiusura lo interrompe nel giusto momento.
Al contrario, ne “Il mio gioco è soave” (racconto di una viaggio in Egitto) e ne “Il tesoro nascosto nel campo” (doppio racconto, parallelo ma diviso, che ripropone l’accoppiata comico+estremo narrando la disavventura del protagonista con un rumeno e con un disabile al quale deve fare un’intima assistenza) il finale ci fa rimanere, per così dire, con i fili creativi in mano, a interrogarci su quali forme dobbiamo farli assumere per dare un senso alle tranches de vie appena lette.
Nei rimanenti, infine, (“Le cose”, “Niente più culto dei morti nell’Italia del Novecento” e “Il cielo stellato sopra di noi”), si avverte purtroppo il fallimento dei tentativi in cui per troppa esposizione il sentimento di dolore, malinconia o insoddisfazione diviene opaco: ciascuno per ragioni diverse, ma forse tutti per la stessa ragione, perché invece che le persone, soltanto le persone, a emergere è sempre una parola troppo esplicita, che offusca la variopinta vita di oggi che si vorrebbe raccontare con un’empatia e una pietà assolute verso le “persone” che la vivono.
