di Marco Mongelli
Image may be NSFW.
Clik here to view.
Com’è possibile che un racconto tanto scialbo e un discorso tanto debole sul mondo e sull’uomo contemporaneo abbia così presa fra i lettori e gli addetti ai lavori del 2015?
Questa è la domanda che continuavo a pormi durante la lettura di Nel mondo a venire (10:04 il titolo originale), secondo romanzo dello statunitense classe 1979 Ben Lerner, uscito l’anno scorso e tradotto da Martina Testa per Sellerio quest’anno.
Se non avesse riscosso tanto successo e non avesse suscitato tanto clamore critico l’avrei liquidato come uno di quei romanzi deludenti che non riescono a fare ciò che si percepisce avevano intenzione di fare. Invece diventa per me necessario cercare di trasformare la nitidezza della mia ricezione – una lettura che nel migliore dei casi mi ha lasciato indifferente, nel peggiore infastidito – in un discorso argomentato che sia (quanto più) trasmissibile e condivisibile.
Nel mondo a venire è un romanzo diviso in cinque parti in cui si alternano vari livelli narrativi e voci narranti, ma in cui il punto di vista resta lo stesso dall’inizio alla fine. La storia è quella di uno scrittore (alter-ego finzionale dell’autore) alle prese con il suo secondo romanzo, con una malattia incombente e con una richiesta di paternità da parte di un’amica che non sa come gestire. Il tutto a New York: ancora una volta, un giovane borghese benestante, colto e ipocondriaco della Grande Mela con molte fisime e pochi veri problemi.
A partire da questi motivi narrativi – a cui vanno aggiunti un paio di uragani in arrivo in città, il mondo delle gallerie di arte contemporanea, il tutoring a un ragazzino ispano-americano, il volontariato in una cooperativa alimentare, le cene mondane fra scrittori – Nel mondo a venire è in maniera scoperta una versione non molto aggiornata dei romanzi “postmodernisti” americani degli ultimi trent’anni. A parte qualche riferimento all’immancabile senso di perdita per il World Trade Center, al movimento Occupy, ai vari hipsterismi del mondo à la page di oggi, a un po’ di name dropping molto puntuale, è un romanzo che potrebbe essere stato scritto nel 1995. Con la differenza che il narratore non è però quel prodigio brillante e divertente, ancorché nevrotico, a cui siamo abituati, ma una sua copia noiosa e mediocre, che interagisce con altri personaggi prevedibili e stereotipati.
Eppure, la presenza di una fitta rete di rimandi meta-finzionali e il sovrapporsi molto marcato di realtà biografica e universo testuale inventato farebbero di questo romanzo un prodotto squisitamente del nostro tempo. Tuttavia i dispositivi non- e auto-finzionali non si fanno strumento, mezzo per dire qualcos’altro, ma rimangono letteralmente fine a se stessi.
(È curioso: dopo anni di sarcastiche critiche a un uso modaiolo di queste pratiche, ecco un prodotto davvero modaiolo, e sembra che si stia rinnovando la letteratura. E dopo decenni a dire dei postmodernisti ombelicali e onanisti, beh… idem)
Tutta la narrazione è condotta sul filo di una medietà di tono, di lingua, di figuralità, che scivola sempre in un tiepidume senza colore e senza slanci. L’ironia poi non punge né illumina, è innocua e quindi non ha alcun potenziale conoscitivo. Non è diretta davvero né verso il se stesso autoriale (vero quid dell’autofiction) né verso il mondo circostante. Ed è proprio questa mancanza di direzionalità il problema principale, strutturale, del testo.
Anche le parti riflessivo-saggistiche, sempre affidate al narratore-protagonista, sono blande e vacue. Se le questioni relative alla dialettica tra desideri individuali e mondo capitalistico sono molto poco originali, decisamente monocorde è la descrizione delle relazioni interpersonali, a partire dalla ridicola storia della donazione spermatica all’amica e della stucchevolissima trafila per il concepimento, così come già sentiti sono il discorso (quasi)apocalittico sui disastri naturali e quello sulla spettacolarizzazione televisiva di un disastro nazionale (lo Space Shuttle Challenger del 1986). Più interessanti sono i momenti di descrizione-connotazione del paesaggio e dell’ambiente circostante, e le riflessioni sugli oggetti e il loro valore/potere simbolico («emissari di un mondo a venire»): anche qui, però, si avverte una patina di gratuità e di stanchezza di periodi para-saggistici senza nessun acume socio-antropologico, figurarsi politico. Altrove, si vorrebbe mimare il respiro del verso lungo e riflessivo della poesia prosastica, ma il poemetto inserito (un altro degli auto-innesti nell’intersezione tra pagina e vita) ha ancora una volta il sapore dell’innecessario.
Sia il titolo originale, sia quello italiano concernono il tema del tempo, dello sfasamento tra vissuto presente e aspettative future e della mediazione del ricordo, decisivo anche se finto, di quello che si sta vivendo. “10:04” si riferisce al minuto della video installazione The Clock in cui dovrebbe apparire una sequenza di Ritorno al Futuro. Il mondo a venire immaginato dall’autore è invece una proiezione futura non molto dissimile dalla realtà attuale. Tale concezione (presentata sin dall’epigrafe e poi ribadita nelle altre tre occorrenze dell’espressione) esprime una visione così placidamente disincantata e intellettualmente compiaciuta del proprio posto nel mondo da essere un po’ imbarazzante.
Il didascalismo dell’operazione di incrocio tra realtà e finzione e dei rimandi tra il fuori e il dentro del testo è ben espresso dalla frase con cui un personaggio commenta l’intenzione alla base del secondo romanzo dell’autore: «falsificare il suo archivio per finanziare una procreazione assistita: contraffare il passato per sovvenzionare il futuro».
Una delle caratteristiche principali del libro è infatti quella di esplicitare il suo funzionamento, secondo una procedura molto invalsa nella recente produzione di testi ibridi: innestando nel racconto materiali di vario genere (ad esempio il racconto sul New Yorker, la falsa corrispondenza con altri scrittori, il racconto di Roberto, etc.) Lerner fa vedere, in maniera a volte fin troppo schematica, come si è stratificato il suo Nel mondo a venire. Il punto è che, come accade per esempio in HHhH di Laurent Binet, mostrare quel processo è insufficiente: bisogna essere in grado di metterlo in pratica, cioè di creare un proficuo cortocircuito tra quei piani di realtà e finzione. E invece, al posto di diventare un vero oggetto narrativo ibrido, il testo rimane una successione di piani narrativi e discorsivi solo giustapposti e mai intersecanti.
Per tutto il libro, il discorso e il racconto girano intorno a un sentimento di difficile definizione provato dal narratore-protagonista. Non è un dolore, non è un trauma, non è nemmeno un vero e proprio disagio, ma un fastidio, un malessere, una nostalgia senza profondità né interesse. Ancora: a chi parlano queste ansie, queste paturnie? Questa scissione dell’io autoriale, che è visto dai suoi propri occhi e poi in terza persona, non pare strumentale a nessun discorso coeso e di spessore. A cosa serve infatti l’esposizione della propria inadeguatezza e goffaggine se non è funzionale a un discorso più grande, che riguardi il proprio sé e il mondo intorno? A dimostrazione che non c’è nulla di più narcisistico (proprio perché rivolto solo verso il dentro e non – com’è invece l’esibizionismo – verso l’esterno) di una medietà insignificante fatta passare per esemplare.
Perché dovrebbero ancora interessarci questi quasi quarantenni che semplicemente esprimendo la propria inappartenenza pensano di risolverla? Nel mondo a venire mi pare un romanzo che nonostante parli continuamente di sé non riesce mai a colmare la distanza con l’esperienza individuale del suo autore, che rimanga a un livello cervellotico del discorso; che sia, in definitiva, il relitto di una letteratura che è stata grande ma che è invecchiata inesorabilmente ed è quindi ormai inservibile. E non è un caso che, come tutti i libri epigonali, questo riesca soprattutto laddove ricalca, e non prova a riscrivere, ovvero quando inserisce aneddoti divertenti, fra il tragico e il grottesco, come quello della collega del protagonista alla cooperativa.
Per finire tornando alla domanda iniziale: anche a lettura ultimata, non so rispondere.
Trovo però questa coolness ingiustificata e un po’ triste, il sintomo di un conformismo che dà da pensare. Mi sarei aspettato l’hype per un testo urgente, sincero, vero, e non per questa melassa verbosa e annacquata, di cui proprio non si sentiva il bisogno.
Image may be NSFW.
Clik here to view.
Clik here to view.
