di Raffaello Rossi
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Il secondo volume di La mia lotta è occupato interamente dalla terza parte: si apre su una data, «29 luglio 2008». Ci troviamo quindi nel presente della scrittura, nel tempo della frase che si ripeterà alla fine del secondo libro. Come la prima volta che abbiamo incontrato quella frase, nelle prime pagine di La mia lotta (1), il presente attuale è praticamente “invaso” dai bambini, i protagonisti del secondo libro. La pura forza vitale che essi rappresentano nell’esistenza dello scrittore crea uno strappo rispetto al quadro di morte e di immobilità su cui ci aveva lasciato il narratore al termine del primo libro, rispetto al quale questo provoca un’antitesi totale. L’opposizione tematica (ma non, come si vedrà, formale) tra i primi due libri dell’opera, ci porta al livello successivo del testo, ovvero la costruzione, della quale La mia lotta (2) ci consente di avere un’immagine più nitida. L’apparente casualità degli episodi del primo libro, in realtà tra loro connessi e connotati secondo la loro giustapposizione, seguiva l’infanzia, l’adolescenza e gli anni dell’università, spezzando la linearità della progressione distribuendola in digressioni richiamate dal ramo principale del plot, i funerali del padre. Nel secondo libro invece l’intreccio segue uno schema “a imbuto” (secondo l’aspetto che assume, schematicamente, l’inferno dantesco): il racconto inizia in un passato immediatamente precedente al presente della scrittura, descrivendo l’esasperante situazione familiare del narratore, duramente messo alla prova dalle classiche “vacanze da incubo”, spese tra luna park e stazioni di servizio fatiscenti:
Linda era furiosa, il suo sguardo cupo, finivamo sempre in situazioni simili, sbuffava, non succedeva a nessun altro, non riuscivamo a far funzionare niente [...] avrebbe potuto essere mystig. piacevole, e invece ci ritrovavamo a camminare qui, su un ponte infernale, circondati da macchine che sfrecciavano e da smog. Avevamo forse mai visto altre famiglie con tre bambini uscire in simili condizioni?.
Alla fine del secondo libro torniamo ciclicamente, dopo una sorta di immensa digressione che occupa tutto il racconto, press’a poco allo stesso “periodo difficile”, ma stavolta la prospettiva non è più quella di un litigio davanti ai bambini, con tutta la costernazione che ne può seguire, per la stanchezza, la monotonia e le responsabilità della vita adulta; stavolta marito e moglie si fanno coraggio a vicenda, la prospettiva si apre sulle possibilità di migliorare le cose: «Quando arrivai, Linda mi abbracciò a lungo e con calore, ci sedemmo in salotto, aveva preparato da mangiare, le raccontai del viaggio, lei disse che era andata meglio quel giorno, ma che aveva capito che dovevamo fare qualcosa per uscire dal circolo vizioso in cui eravamo, ero d’accordo, non poteva più funzionare, assolutamente, dovevamo uscirne e dare inizio a qualcosa di nuovo. Alle undici e mezzo andai in camera da letto e accesi il computer, aprii un documento nuovo e cominciai a scrivere.» . Karl Ove inizia così a produrre il romanzo che abbiamo tra le mani adesso.
Tra i due momenti del presente, connotati in modo opposto, si apre una sorta di voragine nel passato del narratore, che ci porta a un anno dopo la morte del padre. «La prima volta che avevo visto Linda era stato nell’estate del 1999 a un seminario per esordienti scandinavi a Biskops-Arnö, fuori Stoccolma.» La narrazione però non ci riporta subito al primo incontro, ma al secondo. La digressione si sofferma su di uno stadio intermedio, all’epoca in cui Karl Ove, ossessionato da un forte blocco creativo, ha lasciato la prima moglie, Tonje, per trasferirsi a Stoccolma, depresso, in sovrappeso, trentenne e senza prospettiva alcuna. Da questo gradino si scende poi ancora di un piano, fino all’anno della “gita” con la scuola per scrittori, dove Karl Ove conosce per la prima volta Linda, se ne innamora, ma viene scartato per il brillante e carismatico Arne. La notte del rifiuto, ubriaco, Karl Ove compie un atto di autolesionismo, sfregiandosi con un bicchiere rotto.
Siamo a p. 203, nemmeno a metà della seconda parte, e già ci troviamo al fondo della storia del narratore, alla risposta a quella domanda che tornerà, doppiando l’inizio dell’opera, alla fine della seconda parte: quel volto, «Cosa lo ha segnato?». Da qui comincia, lenta, la risalita, che ci riporterà al presente, passando per la nascita di Vanja, le liti con la vicina alcolizzata e aggressiva, la vita a Stoccolma e le difficoltà con Linda, tra crisi e ritorni, particolari tratti dalla vita quotidiana descritti con la minuzia a cui Knausgård ci aveva già abituato nel primo volume. Si tratta di una risalita, ma anche di un allontanamento «dal centro della vita. Non la vita come età, tanto meno la vita come percorso, ma al centro stesso dell’esistenza» , quando da solo, nel bosco di Biskops-Arnö, prova la sensazione di essersi avvicinato a qualcosa di essenziale, come un’illuminazione e un’apertura del mondo. La stabilizzazione che richiedono la vita adulta e la famiglia inducono all’inautenticità della quotidianità, alla chiusura del mondo intorno a felicità e infelicità trascurabili.
In questo libro non ci sono prospettive di redenzione, né sono possibili percorsi di terapia del sé: né i rapporti intersoggettivi né l’io del singolo possono liberarsi dell’inautentico, dell’equivoco e del menzognero; da tutto questo è soltanto possibile anestetizzarsi. La forma che questi aspetti prendono nella racconto della storia di una famiglia, è la decifrazione degli elementi che conducono a una crisi e il suo superamento. La vita quotidiana è costellata di dilemmi cruciali e irrisolvibili logicamente. Dopo uno dei litigi più cruenti con Linda Karl Ove si trova di fronte uno di questi bivi: «Dentro di me c’erano due tipi di sentimenti. uno diceva, devi andartene, lei vuole troppo da te, perderai tutta la tua libertà, dedicherai a lei tutto il tuo tempo, e come potrebbe funzionare con tutte le cose che reputi importanti, la tua autonomia e la scrittura? L’altro diceva, tu l’ami, lei ti dà quello che nessun altro può darti, e sa chi sei. Sa esattamente chi sei. Erano entrambi ugualmente validi, ma erano inconciliabili, l’uno escludeva l’altro e viceversa.» La situazione rimarrebbe bloccata, se di mezzo non si ponesse la “relazione col mondo”. Lei prepara una cena riconciliatrice, in cui di fatto riconosce il proprio errore. Ma il dilemma non riguardava chi avesse ragione, la scelta era tra due modi di essere. La via alla riconciliazione non si trova nel dialogo tra i due, ma è tracciata e custodita dalle cose: quella sera lei «Indossava la camicetta blu che mi piaceva tanto» , mentre la tavola, apparecchiata con le candele, offre al protagonista uno dei suoi piatti preferiti: «Per un po’ mangiammo in silenzio. Nell’istante in cui uno di noi due avesse portato la conversazione su qualcosa di più normale e quotidiano, anche quello che era successo sarebbe passato. Io volevo e non volevo farlo.» La crisi interiore è rimasta immutata, i meccanismi non si modificano, la coscienza oscilla instaurando l’eterno ritorno dell’uguale («tutto il processo ricominciava da capo, era ciclico, come in natura» ). A mutare sono le condizioni esterne, la datità, i fatti: la vita si può trovare solo nel significato che le cose custodiscono come un ponte tra soggetti diversi. Sono a loro volta simbolo e luogo del compromesso, dell’oscillazione e della dinamicità necessari alla vita. Ciò che la vita considera vero non è lo stesso che risulta vero dall’incontro con la morte, e nei significati, nel senso che le cose acquistano per noi, si trova ciò che la vita considera vero nel profondo e ciò che la riguarda più di ogni altra cosa: l’amore.
Se la vita supera continuamente le crisi, l’arte si nutre al contrario degli arresti, dei confini insormontabili, dell’inconciliabilità:
Cercare di far fluire le cose, impegnarsi per raggiungere un’assenza di contrasti, è il contrario dell’essenza dell’arte, è il contrario della saggezza, che si basa sul trovare un puno d’arresto o sull’essere fermati. E dunque la domanda è cosa scegliere, il movimento, che è più vicino alla vita, o il punto in cui non c’è movimento, che è quello dove risiede l’arte, ma anche, in un certo senso, la morte?
Vediamo un altro esempio: dopo aver scoperto con assoluta certezza che Ingrid, la madre di Linda, beve nei periodi in cui le viene affidata la bambina, Karl Ove le impone un ultimatum. È una situazione senza via d’uscita: se la suocera non ammette l’esistenza del problema e non promette di porvi rimedio, lui non potrà permetterle di continuare ad occuparsi della figlia. Tuttavia, spiazzato dall’ennesimo diniego della suocera, Karl Ove deve fare retromarcia: «Non riusciamo a smuoverci da qui. Propongo di abbandonare la questione per il momento e in seguito potremo riparlarne e vedere cosa possiamo fare.» Alla fine Ingrid ammette il suo errore, ma questo non toglie alla figlia l’angoscia sul pericolo di una dipendenza dall’alcol della madre. Insomma, la crisi è superata senza uno scontro diretto e senza che ci sia una vera e propria pacificazione. La vita con Linda risente degli stessi impasse dolorosi, ciò che l’autore chiama «il buio», iniziato quando «il mondo scivolò via». La quotidianità è una crisi e una lotta permanente senza vincitori, in cui le possibilità di apertura del mondo si riducono drasticamente riducendo la vita nella sfera esperienziale all’infelicità delle piccole cose.
Il mistero che l’arte cerca di penetrare non è come si possa restar soli in una società eccitata dove vengono abolite le differenze, non ricopre con un velo l’enigmatica profondità individuale, ma al contrario, come quelle relazioni possano crearsi e mantenersi, come l’individualità sia portato continuamente ad abdicare. Sono questi gli “spazi bianchi” del romanzo: i dilemmi, le domande vengono lasciati in sospeso, oppure la loro risoluzione viene semplicemente enunciata, come gli anni successivi alle rivolte in piazza in L’educazione sentimentale.
Il racconto della vita quotidiana porta alla problematica contraddittoria dell’essenza. Il soggetto si pone la domanda su cosa sia e non sia essenziale in questa vita. Così, rispetto alla dinamica domestica dei legami familiari, così lontana dalle speranze che la letteratura fa nascere, l’essenza sembra essere esclusa:
Era il contesto sociale che mi portava a sentire i legami, non le persone che ne facevano parte. In mezzo a queste due prospettive non c’era niente. C’erano solo la piccolezza dell’auto-annientamento o la grandezza della distanza. E nel mezzo, era proprio lì che si svolgeva la vita quotidiana.
La routine è sempre e comunque tempo sprecato, vita vissuta a un grado basso d’intensità, tutto il contrario di quell’ideale sublime che Karl Ove identifica come il contenuto della poesia di Hölderlin, menzionato più volte in questo volume. La quotidianità «era una cosa che non sopportavo, non qualcosa di cui mi rallegravo, che mi dava un senso o mi rendeva felice. [...] non vedevo il valore della vita che avevo intorno, ma desideravo sempre di allontanarmene ed era sempre stato così.» Si affermano così istanze di tipo opposto rispetto a quelle contenute nelle pagine centrali del primo libro: la ricerca del protagonista ha come oggetto la pienezza di senso e il valore, la cui esistenza gli veniva testimoniata dai libri di filosofia, e dall’arte, ma anche da quelle intermittenze di felicità in cui «Se qualcuno allora mi avesse parlato della mancanza di un senso gli avrei riso in faccia, perché ero libero e il mondo si apriva davanti a me, saturo di significato» . Sono periodi limitati cronologicamente, legati ai primi mesi insieme a Linda e alla scoperta della vita genitoriale. Anche la scrittura, rapsodica, del secondo romanzo, scritto subito dopo la nascita di Vanja, corrisponde a questa saturazione del valore e del significato:
quello che all’inizio era solo un lungo saggio, aveva cominciato lentamente a crescere fino a diventare un romanzo vero e proprio, ero arrivato quasi al punto in cui era diventato tutto [...]. Mi sentivo riempire da una sensazione davvero fantastica, in me brillava una specie di luce, non quella calda che ti consuma, ma una luce fredda e chiara e scintillante
La felicità si manifesta la presenza tangibile di un Tutto, come la cessazione di uno stato di oscillazione e di manchevolezza. Il primo libro verteva interamente sull’esperienza della morte e del nulla; il secondo racconta invece la ricerca della vita, della pienezza e del tutto: non siamo di fronte a “una vita norvegese” ma a una vita che cerca di darsi un senso, che soffre per la sua mancanza e si fonda su di una concezione elegiaca della felicità.
Questa opposizione è percepibile già nelle prime pagine, dove la ricerca dell’essenziale dell’arte viene esplicitata, negando il rifiuto della spiritualità espresso nel primo volume: «l’essenziale in verità è sempre stato altrove, nel linguaggio, che brilla nella sua eleganza rinnovata di una luce del tutto particolare, inimitabile e piena di spiritualità». Quella luce, quell’essenza comunicata non dalla forma, ma dallo stile, non ha la sua sede esclusiva nell’arte, ma è ciò che l’arte estrae dalla vita di quegli esseri che custodiscono per noi un significato assoluto e immutabile. Si tratta di ciò che dà un senso alla vita, e che la rende diversa dalla morte:
Quella sensazione, che è immutabile, è ciò che loro “sono” per me. E ciò che “sono” per me è esistito in loro fin dal primo giorno che li ho visti [...] quello che “sono” non ha niente a che fare con le loro abilità, con ciò che sanno o non sanno, ma più con una specie di luce che brilla dentro di loro.
Per tre volte l’essere dei figli viene messo tra virgolette, a sottolineare il fatto che la loro esistenza è inconciliabile con quel “punto di vista della morte” che pure sembra trovarsi a fondamento della scrittura. La letteratura, l’arte, vengono ora considerate nella loro capacità di mostrare, attraversare e ricostruire ciò che è l’essenziale. Se nel primo libro la finzione da smascherare era la figura tirannica e titanica, del padre – Zeus e Prometeo a un tempo, – in quanto spiritualità invadente e catalizzatrice di senso nella realtà, il gesto che si compie nel secondo libro ha una valenza opposta: si tratta di smascherare la falsa materialità delle cose.
Anche l’approccio materialista classico è, per Knausgard, un’orizzonte di trascendenza: «se è allettante cercare di spiegare il modo in cui una generazione ha stravolto la società in base alla visione del rapporto tra eredità e ambiente [milieu], questa tentazione è letteratura e puro piacere speculativo, consiste cioè nel far vagare il pensiero tra le aree più disparate dell’agire umano, più che nella gioia di dire la verità.» La verità è “sensazione” ed “essenza”, viva ma immutabile, unica eppure universale: non ne esiste una oggettiva o meramente soggettiva, applicabile a una gamma disparata di oggetti secondo l’occasione. Parlare dei figli significa quindi non tradurre nel linguaggio comune ciò che è unico, ma al contrario di trasporre quest’unicità nel linguaggio, quella “specie di luce”.
Cercherò di stabilire con un esempio come ciò avvenga. In una delle prime digressioni nel passato recente, Vanja, la figlia più grande, non vede l’ora di partecipare alle festa di un’amica dell’asilo. Assilla i genitori chiedendo ogni giorno «quanto manca?», e quando il padre le mostra le scarpe d’oro che dovrà mettersi per la festa, lei è tutta contenta. Ma la festa si rivela un fiasco tremendo, sia per la piccola che per il padre. Dopo pochi minuti non vedono l’ora di uscirne, e le scarpe d’oro vengono ritrovate alla fine buttate in un vaso di terra: la piccole non le vuole più, rigetta in un sol colpo tutto quello che aveva desiderato per settimane. La crisi non riguarda gli altri genitori e gli altri bambini, ma soltanto loro due. L’unica differenza tra l’adulto e la bambina è la mancanza dei freni inibitori che impediscono a Karl Ove di esprimere il proprio stato d’animo. Non sono le abilità, le qualità di Vanja, i raggi della sua luce, ma il suo essere principio d’imprevedibilità. La descrizione del suo carattere si struttura su una serie di avversative:
Spesso era l’idea delle cose che l’attirava, più che le cose in sé, per esempio le caramelle: poteva parlarne per una giornata intera, agognarle, ma, quando finalmente se le ritrovava davanti, le assaggiava appena per poi sputarle . Ma non imparava affatto [...]. Voleva tanto andare sui pattini, ma una volta sulla pista di pattinaggio…
E ancora:
fu grande la sua gioia quando capì che riusciva a stare sugli sci [...]. Ma anche in quel caso… [...]. Adorava viaggiare con noi, adorava vedere posti nuovi e ne parlava per mesi. Ma più di tutto le piaceva giocare con gli altri bambini, ovviamente.» Il bambino è ciò che è sempre pronto a rovesciarsi e a rovesciare la situazione che lo circonda, compresa anche la vita degli adulti: «tutto era imprevedibile e sempre sull’orlo del caos.
Il principio vitale che i bambini introiettano nella vita dei genitori è l’esatto opposto dell’eterna ripetizione dell’uguale, su cui la società moderna si fonda, serializzando gli individui e gli esseri, valorizzando più di ogni altra le verità equivalenti della ragione matematica. Nei primi anni di vita, quello stato comatoso chiamato quotidianità non esiste: lo spazio di senso è estremamente ridotto, ma infinitamente più intenso se paragonato alla pre-comprensione totalizzante del mondo degli adulti.
Sul livello tematico del testo è impossibile andare oltre le considerazioni fatte fino a questo punto, dovendoci attenere a quanto apprendiamo da un misero terzo dell’opera intera, che è quanto al momento ci è dato di leggere in Italia. Cercherò di chiudere il discorso sul livello tematico/costruttivo e di aprirne un altro, più narratologico, sul livello del linguaggio, riprendendo il filo delle riflessioni fatte all’inizio. Cosa accomuna il libro di Knausgård alle opere che avevamo elencato? Se ci limitiamo al confronto con un congenere, il romanzo di Proust, segnaliamo un elemento di identità e uno di somiglianza. La narrazione romanzesca moderna è concepita perché il lettore s’identifichi con un punto di vista individuale e particolare, e perciò anche, necessariamente, relativo, a sua volta immerso in un mondo di esseri particolari e relativi. Il tipo di soggetto incarnato dal personaggio romanzesco è quindi privo di quel tessuto connettivo valoriale e identitario che faceva degli eroi dell’epica classica e cristiana i perfetti rappresentanti di una collettività. L’eroe romanzesco non ha una comunità alle spalle, ma, tutt’al più un milieu, un contesto istituzionale stratificato e organizzato, in cui egli occupa una posizione più o meno rilevante o rappresentativa, ma mai assoluta. Signori feudali gli eroi dell’epos, signori soltanto della propria coscienza gli eroi romanzeschi. La coscienza assume nel romanzo un ruolo fondamentale in quanto sostituisce quella connessione tra io e mondo, particolare e universale, che nelle storie antiche veniva rimesso al “naturale ordine delle cose”, e che adesso si realizza soltanto nel discorso riflessivo della coscienza, che i romanzi moderni si attrezzano di rendere mimeticamente. Ciononostante il discorso dell’io può sì, distanziare la realtà fattuale, ma mai assorbirla o sostituirla del tutto: un romanzo pieno di riflessioni come Delitto e Castigo, pur essendo dominato dai monologhi interiori del protagonista, e investendo così ampi spazi di realtà al di là di quella a lui contingente, non ci esonera dal ricordare che quelle riflessioni sono rese interessanti e “vere” dal fatto che sono i pensieri appartenenti a un assassino, rappresentante di una categoria sociale ben definita. Anche l’introspezione dei personaggi sveviani deve qualcosa alla loro condizione d’impiegati, facendosi specchio di contenuti propri della mentalità piccolo-borghese nella sua configurazione primo-novecentesca. La stesso accento posto sulla sfera interiore e privata può essere plausibilmente interpretato ideologicamente, com’è stato fatto, quale prodotto immediato della scissione tra il singolo e il collettivo su cui si fondano le strutture della società tardo-capitalistica. Simili interpretazioni però mostrano la corda là dove, come nei romanzi di Proust e di Knausgård, la narrazione si configura in modo tale da escludere, fino a renderli inconsistenti, quei “fattori di relatività” che altrimenti condizionano la posizione del personaggio focalizzatore. Questo punto d’identità è ricavabile, come penso si sia potuto vedere nel corso di quest’articolo, nel livello tematico: nella tradizione di testi a cui i due autori mettono capo, la narrazione si svolge interamente nello spazio delimitato dal discorso interiore di un soggetto: un io che parla di sé, racconta episodi della sua vita, si abbandona a riflessioni e speculazioni filosofiche che possono investire del pari il riferimento concreto dell’esperienza narrata quanto il discorso stesso della narrazione. La peculiarità di questo discorso è tuttavia la sua assolutezza rispetto alla realtà che racconta, la sua capacità di assorbirla interamente, fino a far dipendere l’andamento e il contenuto della narrazione da nient’altro che non siano i movimenti della coscienza di chi scrive. Il sintomo più evidente di questa posizione del narratore è il libero gioco a cui vengono sottoposti il tempo e lo spazio, dilatati e ristretti, dislocati e distribuiti a piacimento. I nessi di causa ed effetto non vengono rimossi, ma perdono d’importanza, divenendo centrale non questa o quell’esperienza, ma “il fare esperienza” in quanto tale. In questi libri, dove il racconto ha per oggetto il massimamente particolare e relativo, il totalmente insignificante e ripetitivo, le cose, gli eventi e le azioni cessano di essere “situati”, secondo la disposizione logica e teleologica sottesa a qualunque tipo di trama, per lasciare il posto al loro significato, al loro spazio di senso. Al fondo della storia di uno è possibile quindi ritrovare la storia di tutti, il massimamente privato diventa il massimamente condiviso, dall’identificazione relativa del dispositivo romanzesco in terza persona si passa all’identificazione assoluta proposta dalle narrazioni del sé.
Oltre a quest’identità di forma, è rilevabile, tra Proust e Knausgård, una somiglianza di gesto che però conduce i due autori in direzioni diverse e, forse, opposte. Ed è qui che si trova la vera novità, a mio avviso, del norvegese, riscontrabile nel livello dello stile.
Eppure il linguaggio astratto, il vocabolario filosofico, sociologico e psicologico è assente, o comunque narrativizzato. Gli inserti saggistici e teorici in realtà concretizzano e spazializzano, fanno la descrizione di descrizioni non astraendo, ma cambiando registro. Hanno comunque l’effetto di interrompere il flusso narrativo e d’intrecciarsi con esso, ma mai con la digressione, integrata e integrante i fatti e le cose, che troviamo in Proust. Ciò che Proust, artista della sfumatura e dell’atmosfera, fa nella stessa frase, il geometrico e divisionista Knausgård lo fa nell’insieme di ogni volume, anzi, di ogni parte del suo libro.
Qual è la ragione di questo ritorno al concreto, della svalutazione del linguaggio psicologico in un genere come quello derivato dalle autobiografie spirituali?
Knausgård pone la questioni in termini recisi:
L’arte non ha niente al di fuori di sé, la scienza non ha niente al di fuori di sé, la religione non ha niente al di fuori di sé. Il nostro mondo è chiuso su se stesso, chiuso su di noi e non c’è più nessuna via d’uscita. Coloro che in questa situazione chiedono più interiorità, più spiritualità, non hanno capito niente, perché il problema è che lo spirito ha invaso tutto quanto. […] Comprendiamo tutto, e questo succede perché abbiamo trasformato tutto in noi stessi.
Si tratta di una delle riflessioni più pregnanti di tutto il primo libro: ogni considerazione sullo stile dell’opera va calibrata sulle affermazioni che l’autore emette liberamente esattamente a metà del primo volume. L’inserto appena citato è la risposta dell’autore a un problema che la cultura occidentale non è riuscita a risolvere, e che potremmo chiamare la “barriera del modernismo”. La generazione che va da Munch a Freud e Proust pone un problema la cultura successiva non ha risolto, ma ha affrontato con alterne vicende senza mai del tutto venirne a capo. La temperie culturale che nei vari campi dell’arte, della filosofia e delle scienze umane ha posto al centro dell’attenzione i territori invisibili e insondabili della psiche ha sortito anche l’effetto di segnare irrimediabilmente i limiti di ciò che la cultura del secolo precedente, segnatamente quella romantica, aveva al contrario proclamato come illimitata e inarrestabile. La forza della soggettività, in grado di fare del mondo la propria rappresentazione e di creare infiniti mondi possibili e impossibili, diviene oggetto di studio e di rappresentazione artistica molto prima della fase compresa tra gli ultimi decenni del diciannovesimo e gli inizi del ventesimo. I progressi delle scoperte conoscono, dopo questa fase, un’oggettiva battuta d’arresto: dopo Proust sembra che le possibilità del linguaggio nella mimesi dell’interiorità abbia toccato dei limiti oggettivi, mentre Freud propone, duemila anni dopo i trattati di Aristotele sulla retorica e l’anima, una nuova sistematizzazione delle cause ignote dell’agire umano. Ciò che accomuna filosofi tanto diversi come Adorno e Foucault, è l’attenzione rivolta all’amministrazione sociale delle pulsioni da parte degli organi di dominio e ai dispositivi disciplinari e di controllo in grado di manipolare e inibire scientificamente i soggetti, imprigionandoli in schemi coattivi e ripetitivi a favore dell’ordine pubblico, sociale e morale.
Al concetto subentra, come medium di massa per la trasmissione della conoscenza, l’immagine spettacolarizzata. In tal modo, al discorso letterario viene delegata la mimesi dell’invisibile e dello sconfinato, mentre i saperi legati alla fisicità vengono assorbiti dalla fotografia e dal cinema, messi al servizio di organi d’informazione sempre più pervasivi. Parallelamente, a partire dalla seconda metà del secolo, con la ripresa in chiave filosofica di Nietzsche si sviluppa un pensiero che rimette alla base dei comportamenti e della vita particolare i significanti piuttosto che i significati: l’immagine e la fisicità. Filosofi come Deleuze criticano sulla scorta di Nietzsche la nozione stessa di logos, mentre Foucault recupera la nozione di genealogia teorizzando il vincolo esistente tra la stessa nozione di Verità a un potere che la determina originariamente a suo uso e consumo. Ciò non significa che la vita interiore cessi di essere esplorata e di svolgere una funzione specifica, tuttavia il suo statuto non subisce mutazioni paragonabili a quelle avvenute tra ‘800 e ‘900. Così l’interiorità non cessa di essere oggetto di mimesi: le forme del monologo e dell’analisi mantengono un ruolo fondamentale. Tuttavia cessano di essere produttive sul piano delle forme: gli effetti di straniamento non hanno più come oggetto i concetti o la doxa, ma gli organi percettivi.
È proprio in Proust che la crisi dell’io viene rappresentata in un modo che resta attuale ancor oggi: nell’ultimo volume dell’opera il protagonista /narratore giunge a una festa in casa della principessa di Guermantes. Prima di entrare ha avuto la conferma certa dell’integrità del suo io grazie alla piena consapevolezza dei propri ricordi: la psiche è fatta in modo tale che ognuno di noi possegga un’immagine integra e tutto sommato non discontinua di sé. L’io è, nel senso comune del termine, univoco e unitario. È l’apparizione dei volti deformati dalla vecchiaia che rispecchiano invece la non corrispondenza tra l’immagine egotica e quella reale, concreta. Di fronte allo spettacolo dell’invecchiamento, il narratore deve prendere atto della frammentarietà degli io, e di non essere stato uno, ma centomila, e lo stesso dicasi per ogni altro essere. Insomma, nemmeno un’opera di 4.000 pagine, e nemmeno tutta una vita necessaria per scriverla, sono in grado di dirci una verità sintetica sul mondo interiore. Di fronte a tale limite il processo evolutivo della narrativa dell’io, legata al binomio analisi-monologo interiore, conosce una battuta d’arresto: mentre gli aspetti esteriori della vita comune conoscono una perpetua ed esponenzialmente crescente capacità di mutazione nel tempo e una pluralità sul piano della sincronia, la mera struttura psichica resta, nei suoi fondamenti, sostanzialmente inalterata: la sua cifra essenziale, ovvero l’impossibilità che la comune vita di relazione comporta nella conoscenza del vero pensiero dell’altro e dei nostri desideri inconsci, non subisce mutamenti, in sostanza, nel campo letterario.
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